mercoledì 26 marzo 2014

Nodi da slegare

Libertà, coscienza e sacrificio sulla strada del Magistero

Vi sono dei nodi, nella vita di ognuno, che prima o poi è necessario slegare. Non importa se essi siano di natura interiore, abbiano a che vedere con una situazione od un soggetto con il quale si è coinvolti per uno o più motivi per uno o più stati di coscienza od emozionali.
Se si ha la coscienza e la consapevolezza che l’ora è quella giusta e propizia bisogna operare la “slegatura”. Non importa quanto questa possa essere dolorosa (il parto non è esente da dolore) e non importa neanche quanto questo nodo possa appagare l’Io, l’Ego, il Se etc etc. La presa di coscienza della necessità di questo atto, deve inevitabilmente portare ad un’azione, azione che deve essere fatta come dono di libertà. Sciogliere un vincolo quasi alla stregua di un “mago” o di un “fisiologo” nell’accezione antica, è un’azione necessaria nel rapporto armonico Macro-Microcosmo. Sia ben chiaro non tutti i nodi sono da sciogliere, ma solo quelli che necessitano di questa azione.
L’atto di sciogliere il nodo è un atto sacrificale e di liberazione. E’ sacrificio non tanto per il senso figurato di questa parola che significa perdita, privazione alla quale ci si può abituare; lo è nel senso di rendere sacro di fare un dono “agli dei”. Sciogliendo il nodo ci priviamo di qualcosa per donarla con disinteresse, direi con amore, possibilmente senza aspettativa alcuna. E’ un atto di liberazione, perché se con il nodo  si è afferrato, preso o ci si è spinti sino a quell’abbraccio intimo che si potrebbe intravedere nella radice sanscrita lingami  che porta ad âlingâmi. Nello sciogliere il nodo, si facciamo un atto di liberazione, perché rendiamo libero/a la nostra essenza o ciò o colui che abbiamo legato; come dice l’etimo stesso della parola liber, rendere libero, affrancare da obbligo.
Non è facile sciogliere i nodi e potrebbe non esserci paga alcuna, ma coloro che sono sulla strada del magistero non possono esimersi da questa operazione. Come potrebbe mai un Maestro, tenere “morbosamente” attaccato a se un allievo? Come potrebbe tenere l’Amante tenere legato a se l’oggetto del proprio desiderio? (ed è indifferente che sia l’amore dei miti greci, quello stilnovista, cortese o tra due esseri umani) Chi è sulla strada, chi cammina a piedi nudi deve viaggiare senza bagaglio, forse un giorno nel suo peregrinare ritroverà quando ha reso libero…

Michele Leone

domenica 16 marzo 2014

Nota su Moabon o dell'ambizione

Moabon o dell’ Ambizione bozza 1.0


Chi è Moabon? Perché l’ambizione? In fondo forse ad un primo sguardo tra ignoranza, fanatismo ed ambizione quest’ultima sembra il meno grave dei tre “peccati” o assassini del Maestro Hiram. Ma ne siamo proprio sicuri? Se all’ambizione sostituiamo, la superbia o l’invidia il gioco è fatto ed ecco che riprende la sua giusta collocazione. Tornando all’ambizione, di per se a differenza delle prime due non è a priori un concetto negativo, anzi persona dovrebbe ambire a migliorarsi, perfezionarsi e ricevere un aumento di conoscenza. La negatività dell’ambizione nasce, quando, questa viene spinta oltre i confini del giusto riconoscimento delle proprie qualità. Il superamento di questi confini, per restare nel sacro recinto dei sacri templi, induce al passaggio dalla vita iniziatica alla contro iniziazione. E non è un caso che se i primi due compagni feriscono solo il Maestro, è Moabon che lo uccide. Moabon diventa il controiniziato, che senza più scrupoli porta a compimento la sua opera, opera che può essere votata al vizio e non alla virtù. In questa luce lo strumento usato per l’assassinio assume maggiore importanza e la testa sede del pensiero (accecato in Moabon) diventa lo specchio in cui l’omicida e la vittima si riflettono l’un l’altro.
L’ambizione, “fa rima” con un altro principio ermetico, ovvero, la trasgressione. Ogni iniziato prima o poi per aumentare la propria conoscenza dovrà trasgredire, ma dovrà farlo nel pieno possesso delle sue capacità e con la piena consapevolezza di quanto compie, altrimenti, come nel caso dell’invidia inizierà a percorrere un sentiero diverso da quello dell’edificazione di templi alla virtù.
Ignoranza, Fanatismo ed Ambizione, che in diversi riti  assumono una quantità di nomi che in questa sede è impossibile riproporre, sono gli assassini di Hiram, se per combattere i primi due possono essere chiari sia gli strumenti che le metodologie, per combattere la terza cosa fare? Quali strumenti adoperare?
La risposta non è semplice, e probabilmente non è neanche oggettiva, ma una è la strada dei Maestri, ovvero, camminare indifferentemente sul bianco e sul nero compiendo ogni momento delle scelte.

Michele Leone



domenica 9 marzo 2014

Le scuole iniziatiche non sono un hobby nota 2.0

La degenerazione delle scuole iniziatiche non è colpa dei neofiti e/o profani

Definire cosa sia una scuola iniziatica probabilmente è impresa troppo ardua per l’autore di queste righe, di certo non è mia intenzione farlo qui ed ora, piuttosto in un ragionamento più ampio alla stregua della “teologia negativa” proverò a definire in varie occasioni cosa non sia una scuola iniziatica.
Se si ha del tempo libero è bene occuparlo in attività “ludiche” che diano piacere a seconda delle proprie inclinazioni. Se tra le proprie inclinazioni vi è una certa curiosità intellettuale e spirituale o il desiderio di dedicarsi al miglioramento dell’umanità vi sono una moltitudine di associazioni culturali, onlus, service e luoghi di incontro e confronto dove poter sviluppare al meglio i propri interessi intellettuali e qualche volta economici. L’ingresso in una qualsivoglia scuola iniziatica è e dovrebbe essere una scelta radicale e profonda non un provare o curiosare.
Dovrebbe essere dovere dei Tegolatori prima e dei Maestri  poi cogliere i veri interessi e potenzialità del candidato, che da alcune Scuole viene definito profano. Profano, parola viva che troppo spesso è usata come termine privata della sua forza vitale e spirituale. Il profano è colui che è fuori dal recinto sacro,  fuori dal tempio. Il profano per definizione non sa ed è innocente. E’ un bussante, la profanazione del sacro non può essere una sua colpa ma è colpa di coloro che pur essendo all’interno permetto l’accesso chi non è ancora pronto od essendo all’interno volutamente o meno non colgono l’essenza della sacralità dello spazio ove operano. E qui il rimando è immediato a quel TRADITOR, ovvero il maestro che se non trasmette adeguatamente tradisce!
La curiosità nel senso di curiositas non è una cosa negativa, ma positiva che va alimentata e soddisfatta. Entrare in una comunità, in una scuola iniziatica, in un ordine cavalleresco significa accettarne le regole e subirne le prove, ma chi se non coloro che sono predestinati all’incontro con il profano posso darne una spiegazione e cogliere in questo quella scintilla che lo renderà nel tempo il tedoforo della fiamma sacra?
Per divenire tedoforo, si perché gli iniziati e non i semplici portatori di insegne sono tedofori, il profano dovrà divenire iniziato (ovvero neofita). L’iniziazione comporta degli obblighi, che visti dal di fuori dello spazio sacro sembrano quasi banali ovvietà. Quali sono queste ovvietà?
La prima è la frequenza della scuola dalla quale è ricevuta l’iniziazione. Senza frequenza è impossibile cogliere quanto va colto ed assimilare ciò che va assimilato. La seconda è l’ascolto, non solo inteso in senso fisico e delle parole. Bisogna porsi in una posizione di silenzio interiore e di osservazione; qui torniamo al maestro che può e spesso e traditore perché col suo dire col suo fare influenza ed insegna. Va da se che se il neofita deve frequentare ed osservare, coloro che non sono più neofiti devono lavorare con maggior costanza impegno ed assiduità, perché oltre a dover continuare la loro “formazione permanente” sono chiamati volenti o nolenti a dare un’ insegnamento non fosse che con il solo esempio.
Le poche righe che avevo previsto stanno diventando pagine, l’argomento sta prendendo pieghe inaspettate, è il momento di tacere, per riprendere in altro momento queste considerazioni.
Michele Leone


domenica 2 marzo 2014

La solitudine del maestro - Piccolo delirio sui grandi misteri

Non esistono scuole o percorsi che portano alla Maestria, perché i maestri veri non possono che insegnare a gesti ed a mezze parole e questo è un fatto ontologico indiscutibile. Mi tornano in mente le parole di Gioacchino da Fiore nella sua introduzione al trattato sull’apocalisse di Giovanni “Ma forse, giacché dico queste cose, io mi attribuisco una delle due eventualità, di modo che avrei la presunzione di arrogarmi il merito della scienza? Assolutamente no. Piuttosto io, che mi riconosco nell’una del tutto insufficiente, nell’altra temo molto il giudizio. Poiché, anche se non posso credere di essere sapiente, se non per stupidità, tuttavia non potrei scusarmi di ignorare ciò che sono tenuto a dire, se non per falsità. Parlerò, quindi, come potrò, nel caso contrario indicherò con dei cenni. E se non posso imitare gli uomini, imiterò l’animale senza intelligenza, o altrimenti l’uomo privo di parola, che a cenni va indicando ciò che ha visto.”[1].
Neanche l’etimologia della parola maestro ci è di aiuto se affrontata solo da un punto di vista intellettuale e razionale, anche se nell’origine è parte del segreto e nella parola nel verbo l’essenza e la forza; forza di fare o non fare, capacità di portare dalla potenza all’atto e nell’atto fecondare e rendere fertile la terra che porterà nuovi frutti. Ecco, tra le altre cose il maestro è un instancabile aratore e seminatore che non sempre vedrà i frutti del suo lavoro.
Il maestro vede più lontano o più in profondità solo perché ha più strumenti, od è sulla specola. Egli non è più grande o migliore ha solo consumato più a lungo i suoi sandali ed ha un maggior numero di calli.
Alla forza e non solo della parola il maestro coniuga la dolcezza ed il prendersi cura tipico del femmineo. In esso vi sono ampiamente sviluppate e due metà del cielo e diversamente non potrebbe essere, questa compartecipazione non fa di lui un essere confuso in quanto sa e manifesta ciò che è, questa compartecipazione potrebbe portarlo metafisicamente a divenire l’androgino del pensiero ermetico.
Ogni maestro diviene tale per una sua propria strada, non è possibile identificare una strada comune verso la vera Maestria, gli unici punti che potrebbero essere di contatto tra queste strade così diverse e così simili potrebbero essere la fatica e la rinuncia. Per fatica e rinuncia non bisogna intendere una qualche forma di nichilismo o delle influenze di una qualsivoglia religione rivelata; bisogna intenderle in senso neutro se non positivo. Qualunque atleta sa che per ottenere dei risultati deve “faticare” allenarsi e sforzarsi. La fatica è questo sforzo, questo impegno costante, questo allenamento per andare oltre, per superare quei limiti che non sono determinati aprioristicamente ma che egli percepisce come limiti ed in un qualche modo si sforza di superare. La rinuncia è un concetto difficile da esprimere. Perché ciò a cui rinuncia ogni potenziale maestro è diverso. Da certi punti di vista è al rinuncia alla compagnia, il maestro ed il potenziale maestro devono esperire nella solitudine degli stati di coscienza e dell’essere, alcune porte e soglie non possono essere aperte che da un unico individuo senza aiuto alcuno. Il maestro deve essere un viaggiatore senza bagaglio e deve in una qualche maniera essere pronto a lasciare quanto ha di caro nel materiale e nello spirituale. Da certi punti di vista, egli deve essere pronto alla morte, egli deve esperire la morte e le morti siano esse simboliche come nelle antiche iniziazioni siano esse psichiche o dell’anima. Il maestro in una qualche maniera è un ritornato dalla oscure lande. Non è uno spavaldo, anzi, egli teme e teme più di altri queste morti, ma sa che sono necessarie e le affronta con i propri mezzi e strumenti sapendo ogni volta che non tornerà mai più come prima, sapendo che potrebbe non tornare o tornare in forma “mostruosa” o “demente”.
La rinuncia, la fatica, la “necessità” della morte sono solo alcuni aspetti che si incontrano sulla strada della maestria e nessuno è mai pronto e sa quando gli si proporranno le situazioni in cui dovrà affrontare le prove per divenire maestro. Non è neanche detto che le prove possano riproporsi se non viste, non tutti hanno il privilegio di Parzifal! Non esistono collegi di maestri che chiamano aspiranti maestri, al più esistono comunioni di iniziati che chiamano altri a divenire iniziati, ma questo è un altro discorso.
I Maestri non si dichiarano mai tali, spesso soprattutto all’inizio del loro percorso non hanno la consapevolezza di poterlo essere, e se sanno di esserlo non agiscono mai nel loro interesse, ma solo per quello della causa o dell’individuo con il quale si rapportano.
Il maestro, per le sue possibilità indica, fornisce strumenti e supporta, aiuta più o meno da vicino. Il maestro si fa carico dei pesi ed aiuta a meglio trasportarli o lavorarli. Il maestro entra nell’altrui mare nero nella consapevolezza che potrebbe affogare. Alla fine il femmineo dei maestri, taglia gli eventuali cordoni ombelicali e permette a chi si è appoggiato al maestro di camminare lontano e saldo.
Questa è la solitudine del maestro, donarsi e ridonarsi in un infinito ciclo. E’ vedere crescere piante o foreste nei luoghi che ha frequentato. E’ vedere giovani intraprendere nuove imprese. E’ sorridere mentre scioglie legami. E’ tornare a sedere sulla sua specola e gioire per il lavoro fatto ed allo stesso tempo godere della inevitabile malinconia di un lavoro che finisce.
Il maestro in realtà non è mai solo, perché come madre feconda ha una moltitudine di figli che porteranno per il mondo ciò che egli ha trasmesso, come tutte le madri gioirà per questo ed allo stesso tempo ne soffrirà.

Michele Leone




[1]Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse, tr. it. e a c. di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 1994, pp.                             131-133. 

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