Non esistono scuole o percorsi che
portano alla Maestria, perché i maestri veri non possono che insegnare a gesti
ed a mezze parole e questo è un fatto ontologico indiscutibile. Mi tornano in mente
le parole di Gioacchino da Fiore nella sua introduzione al trattato
sull’apocalisse di Giovanni “Ma forse,
giacché dico queste cose, io mi attribuisco una delle due eventualità, di modo
che avrei la presunzione di arrogarmi il merito della scienza? Assolutamente
no. Piuttosto io, che mi riconosco nell’una del tutto insufficiente, nell’altra
temo molto il giudizio. Poiché, anche se non posso credere di essere sapiente,
se non per stupidità, tuttavia non potrei scusarmi di ignorare ciò che sono
tenuto a dire, se non per falsità. Parlerò, quindi, come potrò, nel caso
contrario indicherò con dei cenni. E se non posso imitare gli uomini, imiterò
l’animale senza intelligenza, o altrimenti l’uomo privo di parola, che a cenni
va indicando ciò che ha visto.”[1].
Neanche l’etimologia della parola
maestro ci è di aiuto se affrontata solo da un punto di vista intellettuale e
razionale, anche se nell’origine è parte del segreto e nella parola nel verbo
l’essenza e la forza; forza di fare o non fare, capacità di portare dalla
potenza all’atto e nell’atto fecondare e rendere fertile la terra che porterà
nuovi frutti. Ecco, tra le altre cose il maestro è un instancabile aratore e
seminatore che non sempre vedrà i frutti del suo lavoro.
Il maestro vede più lontano o più in
profondità solo perché ha più strumenti, od è sulla specola. Egli non è più
grande o migliore ha solo consumato più a lungo i suoi sandali ed ha un maggior
numero di calli.
Alla forza e non solo della parola
il maestro coniuga la dolcezza ed il prendersi cura tipico del femmineo. In
esso vi sono ampiamente sviluppate e due metà del cielo e diversamente non
potrebbe essere, questa compartecipazione non fa di lui un essere confuso in
quanto sa e manifesta ciò che è, questa compartecipazione potrebbe portarlo
metafisicamente a divenire l’androgino del pensiero ermetico.
Ogni maestro diviene tale per una
sua propria strada, non è possibile identificare una strada comune verso la
vera Maestria, gli unici punti che potrebbero essere di contatto tra queste
strade così diverse e così simili potrebbero essere la fatica e la rinuncia.
Per fatica e rinuncia non bisogna intendere una qualche forma di nichilismo o
delle influenze di una qualsivoglia religione rivelata; bisogna intenderle in
senso neutro se non positivo. Qualunque atleta sa che per ottenere dei
risultati deve “faticare” allenarsi e sforzarsi. La fatica è questo sforzo,
questo impegno costante, questo allenamento per andare oltre, per superare quei
limiti che non sono determinati aprioristicamente ma che egli percepisce come
limiti ed in un qualche modo si sforza di superare. La rinuncia è un concetto
difficile da esprimere. Perché ciò a cui rinuncia ogni potenziale maestro è
diverso. Da certi punti di vista è al rinuncia alla compagnia, il maestro ed il
potenziale maestro devono esperire nella solitudine degli stati di coscienza e
dell’essere, alcune porte e soglie non possono essere aperte che da un unico
individuo senza aiuto alcuno. Il maestro deve essere un viaggiatore senza
bagaglio e deve in una qualche maniera essere pronto a lasciare quanto ha di
caro nel materiale e nello spirituale. Da certi punti di vista, egli deve
essere pronto alla morte, egli deve esperire la morte e le morti siano esse
simboliche come nelle antiche iniziazioni siano esse psichiche o dell’anima. Il
maestro in una qualche maniera è un ritornato dalla oscure lande. Non è uno
spavaldo, anzi, egli teme e teme più di altri queste morti, ma sa che sono
necessarie e le affronta con i propri mezzi e strumenti sapendo ogni volta che
non tornerà mai più come prima, sapendo che potrebbe non tornare o tornare in
forma “mostruosa” o “demente”.
La rinuncia, la fatica, la
“necessità” della morte sono solo alcuni aspetti che si incontrano sulla strada
della maestria e nessuno è mai pronto e sa quando gli si proporranno le
situazioni in cui dovrà affrontare le prove per divenire maestro. Non è neanche
detto che le prove possano riproporsi se non viste, non tutti hanno il
privilegio di Parzifal! Non esistono collegi di maestri che chiamano aspiranti
maestri, al più esistono comunioni di iniziati che chiamano altri a divenire
iniziati, ma questo è un altro discorso.
I Maestri non si dichiarano mai
tali, spesso soprattutto all’inizio del loro percorso non hanno la
consapevolezza di poterlo essere, e se sanno di esserlo non agiscono mai nel
loro interesse, ma solo per quello della causa o dell’individuo con il quale si
rapportano.
Il maestro, per le sue possibilità
indica, fornisce strumenti e supporta, aiuta più o meno da vicino. Il maestro
si fa carico dei pesi ed aiuta a meglio trasportarli o lavorarli. Il maestro
entra nell’altrui mare nero nella consapevolezza che potrebbe affogare. Alla
fine il femmineo dei maestri, taglia gli eventuali cordoni ombelicali e
permette a chi si è appoggiato al maestro di camminare lontano e saldo.
Questa è la solitudine del maestro,
donarsi e ridonarsi in un infinito ciclo. E’ vedere crescere piante o foreste
nei luoghi che ha frequentato. E’ vedere giovani intraprendere nuove imprese.
E’ sorridere mentre scioglie legami. E’ tornare a sedere sulla sua specola e
gioire per il lavoro fatto ed allo stesso tempo godere della inevitabile
malinconia di un lavoro che finisce.
Il maestro in realtà non è mai
solo, perché come madre feconda ha una moltitudine di figli che porteranno per
il mondo ciò che egli ha trasmesso, come tutte le madri gioirà per questo ed
allo stesso tempo ne soffrirà.
Michele Leone
[1]Gioacchino
da Fiore, Sull’Apocalisse, tr. it. e a c. di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli,
Milano 1994, pp. 131-133.
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