domenica 2 marzo 2014

La solitudine del maestro - Piccolo delirio sui grandi misteri

Non esistono scuole o percorsi che portano alla Maestria, perché i maestri veri non possono che insegnare a gesti ed a mezze parole e questo è un fatto ontologico indiscutibile. Mi tornano in mente le parole di Gioacchino da Fiore nella sua introduzione al trattato sull’apocalisse di Giovanni “Ma forse, giacché dico queste cose, io mi attribuisco una delle due eventualità, di modo che avrei la presunzione di arrogarmi il merito della scienza? Assolutamente no. Piuttosto io, che mi riconosco nell’una del tutto insufficiente, nell’altra temo molto il giudizio. Poiché, anche se non posso credere di essere sapiente, se non per stupidità, tuttavia non potrei scusarmi di ignorare ciò che sono tenuto a dire, se non per falsità. Parlerò, quindi, come potrò, nel caso contrario indicherò con dei cenni. E se non posso imitare gli uomini, imiterò l’animale senza intelligenza, o altrimenti l’uomo privo di parola, che a cenni va indicando ciò che ha visto.”[1].
Neanche l’etimologia della parola maestro ci è di aiuto se affrontata solo da un punto di vista intellettuale e razionale, anche se nell’origine è parte del segreto e nella parola nel verbo l’essenza e la forza; forza di fare o non fare, capacità di portare dalla potenza all’atto e nell’atto fecondare e rendere fertile la terra che porterà nuovi frutti. Ecco, tra le altre cose il maestro è un instancabile aratore e seminatore che non sempre vedrà i frutti del suo lavoro.
Il maestro vede più lontano o più in profondità solo perché ha più strumenti, od è sulla specola. Egli non è più grande o migliore ha solo consumato più a lungo i suoi sandali ed ha un maggior numero di calli.
Alla forza e non solo della parola il maestro coniuga la dolcezza ed il prendersi cura tipico del femmineo. In esso vi sono ampiamente sviluppate e due metà del cielo e diversamente non potrebbe essere, questa compartecipazione non fa di lui un essere confuso in quanto sa e manifesta ciò che è, questa compartecipazione potrebbe portarlo metafisicamente a divenire l’androgino del pensiero ermetico.
Ogni maestro diviene tale per una sua propria strada, non è possibile identificare una strada comune verso la vera Maestria, gli unici punti che potrebbero essere di contatto tra queste strade così diverse e così simili potrebbero essere la fatica e la rinuncia. Per fatica e rinuncia non bisogna intendere una qualche forma di nichilismo o delle influenze di una qualsivoglia religione rivelata; bisogna intenderle in senso neutro se non positivo. Qualunque atleta sa che per ottenere dei risultati deve “faticare” allenarsi e sforzarsi. La fatica è questo sforzo, questo impegno costante, questo allenamento per andare oltre, per superare quei limiti che non sono determinati aprioristicamente ma che egli percepisce come limiti ed in un qualche modo si sforza di superare. La rinuncia è un concetto difficile da esprimere. Perché ciò a cui rinuncia ogni potenziale maestro è diverso. Da certi punti di vista è al rinuncia alla compagnia, il maestro ed il potenziale maestro devono esperire nella solitudine degli stati di coscienza e dell’essere, alcune porte e soglie non possono essere aperte che da un unico individuo senza aiuto alcuno. Il maestro deve essere un viaggiatore senza bagaglio e deve in una qualche maniera essere pronto a lasciare quanto ha di caro nel materiale e nello spirituale. Da certi punti di vista, egli deve essere pronto alla morte, egli deve esperire la morte e le morti siano esse simboliche come nelle antiche iniziazioni siano esse psichiche o dell’anima. Il maestro in una qualche maniera è un ritornato dalla oscure lande. Non è uno spavaldo, anzi, egli teme e teme più di altri queste morti, ma sa che sono necessarie e le affronta con i propri mezzi e strumenti sapendo ogni volta che non tornerà mai più come prima, sapendo che potrebbe non tornare o tornare in forma “mostruosa” o “demente”.
La rinuncia, la fatica, la “necessità” della morte sono solo alcuni aspetti che si incontrano sulla strada della maestria e nessuno è mai pronto e sa quando gli si proporranno le situazioni in cui dovrà affrontare le prove per divenire maestro. Non è neanche detto che le prove possano riproporsi se non viste, non tutti hanno il privilegio di Parzifal! Non esistono collegi di maestri che chiamano aspiranti maestri, al più esistono comunioni di iniziati che chiamano altri a divenire iniziati, ma questo è un altro discorso.
I Maestri non si dichiarano mai tali, spesso soprattutto all’inizio del loro percorso non hanno la consapevolezza di poterlo essere, e se sanno di esserlo non agiscono mai nel loro interesse, ma solo per quello della causa o dell’individuo con il quale si rapportano.
Il maestro, per le sue possibilità indica, fornisce strumenti e supporta, aiuta più o meno da vicino. Il maestro si fa carico dei pesi ed aiuta a meglio trasportarli o lavorarli. Il maestro entra nell’altrui mare nero nella consapevolezza che potrebbe affogare. Alla fine il femmineo dei maestri, taglia gli eventuali cordoni ombelicali e permette a chi si è appoggiato al maestro di camminare lontano e saldo.
Questa è la solitudine del maestro, donarsi e ridonarsi in un infinito ciclo. E’ vedere crescere piante o foreste nei luoghi che ha frequentato. E’ vedere giovani intraprendere nuove imprese. E’ sorridere mentre scioglie legami. E’ tornare a sedere sulla sua specola e gioire per il lavoro fatto ed allo stesso tempo godere della inevitabile malinconia di un lavoro che finisce.
Il maestro in realtà non è mai solo, perché come madre feconda ha una moltitudine di figli che porteranno per il mondo ciò che egli ha trasmesso, come tutte le madri gioirà per questo ed allo stesso tempo ne soffrirà.

Michele Leone




[1]Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse, tr. it. e a c. di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 1994, pp.                             131-133. 

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